Giovanni Boraccesi

g.boraccesi@libero.it

Oreficeria nella Diocesi di Tricarico dal XV secolo al XVI

DOI: 10.7431/RIV22012020

Sulla base di una mia indagine, con questo saggio intendo completare la disamina delle suppellettili liturgiche del XV e XVI secolo rinvenute nella Diocesi di Tricarico. In un precedente studio, infatti, sempre afferente a questa circoscrizione ecclesiastica della Basilicata, ho già reso noto un gruppo di croci astili; tale studio, inoltre, è preceduto da una introduzione storico-bibliografia, a cui rimando per eventuali approfondimenti1.

Inizio questa mia indagine, ricordando due straordinari e noti manufatti in avorio, originariamente d’uso profano ma trasformati in reliquiari, custoditi nella Chiesa di Santa Maria Assunta a San Mauro Forte, antico edificio religioso riedificato nel 1553.

Si tratta di due Cofanetti (Fig. 1) del XII-XIII secolo di manifattura arabo-sicula2, la cui tipologia è oggi segnalata sia in luoghi di culto, sia in musei nazionali e internazionali. Suppongo che in origine facessero parte delle suppellettili sacre in dotazione al Monastero benedettino di Santa Maria di Priati, assai prossimo a Tricarico e già menzionato in una falsa bolla del 10603.

La più antica testimonianza dei reperti sanmauresi è nel verbale della citata visita pastorale del vescovo Giovanni Battista Santonio, redatto il 6 dicembre 1588: «Visae postea fuerunt reliquiae quae conservantur a cornu evangelij dicti altaris Cappellae Corporis Christi in fenestra condita in muro quae clave claditur, intus capsulam eburneam quadratam quae caret clave et sera, propterea fuit iniunctum ut sub pena librarum cerae albae 25 de ea provideatur intra tres menses proximos et intus dictam capsulam eburneam repertae fuerunt reliquiae infrascriptae conservatae in diversis buxolis ligneis et uno eburneo, ac cartulis diversis videlicet: reliquiae sancti Mauri abbatis; lapis presepij Domini nostri Jesu Christi; reliquiae sanctorum Quiriaci Ilargij et Smiragdi; reliquia sancti Lucae Terrae Armenti; reliquiae sancti Ludovici regis Gallorum videlicet: de tunica de veste sancti Joannis»4.

Dalla stessa fonte rilevo che a Montemurro nella domenicana Chiesa dell’Annunciazione (fondata nel 1442) era presente un Cofanetto in avorio intagliato e figurato, ora perduto, verosimilmente di particolare pregio: «[…] capsulam eburneam imaginibus incisam et bene manufactam pixidem argenteam intus illam»5.

Maggior fortuna critica ha avuto il Riccio di pastorale (Fig. 2) della Cattedrale di Tricarico, commissionato da un munifico vescovo, finora ignoto, che lo avrebbe fatto realizzare nell’ultimo quarto del XV secolo da un argentiere toscano6.

Nel verbale del 23 febbraio 1588 della visita pastorale del vescovo Santonio sono minuziosamente descritti i ricchi decori e le microsculture del manufatto originale: «Pastorale ex ligno, coopertum argento smaltato divisum in quatuor partibus cum vitis ut insimul uniri possit in capite est deauratum ac diversis folijs et animalibus argenteis ornatum, et quia nonnulae ex dictis ornamentis sunt dirutae et penes archidiaconum conservantur propterea fuit iniunctum dicto domino Mario procuratori Mensae Episcopalis ut intra mensem procuret et faciat eundem pastorale accomodari et concinnarj quod pastorale reponitur intus capsulam ex coramine propterea confectam»7.

Se prodotto in Toscana, propongo un confronto col più antico e aulico Pastorale (circa 1324) del Museo Diocesano di Città di Castello, attribuito al senese Goro di Gregorio8; in tal senso, forse, non va trascurata l’elezione al Vescovado di Tricarico di Onofrio da Santa Croce (1448-1471). Secondo un’incontrollata tradizione, però, il pastorale in esame proverrebbe dal vicino comune di Calciano9 e se fosse così, probabilmente dalla distrutta Abbazia benedettina di Santa Maria di Serra Cognato.

Il bacolo potrebbe anche essere stato prodotto a Napoli, giacché in età aragonese qui furono attivi diversi orafi toscani assieme a provenzali e catalani. L’ipotesi di assegnare la committenza del manufatto a un altro vescovo di Tricarico porterebbe a coinvolgere i successori di Onofrio da Santa Croce: Orso Orsini (1471-1474) e Scipione Cicinello (1474-1494). La questione rimane pertanto aperta.

Un intervento di riparazione di questa peculiare insegna vescovile dovrebbe farsi risalire al Cinquecento inoltrato, in quanto lo studioso Elio Catello fa osservare: «[…] alla conclusione del riccio, manca il gruppo scultoreo … che avrebbe potuto darci qualche interessante indicazione, essendo stato sostituito in epoca successiva da un banale e incongruo boccolo»10. Un pastorale tipologicamente affine, per fare un solo esempio, doveva essere quello, perduto, della cattedrale di Nardò: «Pastorale unum argenteum cum insignibus bo(n)æ me(moriæ) Ludovici Iustini de Castello, cum imaginibus beatæ Virginis, et Angeli acx ipsius Ep(iscop)i, et barculæ sculpitist in curco Past(ora)li»11.

Del pastorale di Tricarico fu lo stesso vescovo Giovanni Battista Santonio a sollecitare entro marzo-aprile del 1588, come s’è detto, un improcrastinabile ripristino, successivo di qualche anno, il che è assai curioso, rispetto a quello fatto operare dal suo predecessore Nunzio Antonio de Caprioli (1554-1584); a quest’ultimo s’è voluta attribuire (Di Sciascio) il richiesto inserimento, sul bordo esterno del riccio, di microsculture raffiguranti caprioli e cani.

Questo munifico prelato, inoltre, dotò di pregevoli suppellettili sacre, sulle quali appare il suo stemma episcopale, due luoghi di culto della Diocesi: alla Cattedrale di Tricarico donò una croce astile in argento, forse del tipo Arbor Vitae, e lussuosi paramenti liturgici; alla Chiesa di Santa Maria dell’Episcopio di Montalbano, un parato di velluto12.

Nel repertorio degli oggetti liturgici della Diocesi tricaricense, di ben altra tipologia sono i reliquiari antropomorfi, ossia i contenitori di reliquie realizzati, per lo più, in legno o in metalli preziosi, secondo la forma della sacra vestigia custodita.

Della Cattedrale di Tricarico è ragguardevole il Reliquiario a braccio di San Pancrazio (Fig. 3), il quale originario della cittadina di Sinnada in Asia Minore, subì il martirio a Roma nel 30413. Di quest’oggetto esiste una scheda, compilata nel 1974 dalla Soprintendenza di Matera e aggiornata nel 200514, trascurata dalla letteratura specialistica.

Nel verbale del 22 febbraio 1588 della visita pastorale di Giovanni Battista Santonio è riportato a proposito di questo manufatto: «Postea repertum fuit brachium sancti Panchratij existens intus brachium confectum ex argenteo pro illius ornamento cum pede eneo supra deaurato: et fuit dictum quod brachium hoc non conservatur cum alijs reliquijs supradictis quia semper portatur in omnibus processionibus, et presertim contra tempestates ad effectum ut commodius accipi possit Et dictum fuit has reliquias fuisse ab immemorabili tempore traslatas ab Ecclesia Crassani sed nulla de hoc habetur memoria particularis nisi tantum de publica voce»15.

Di forma cilindrica e degradante verso l’alto, questo reliquiario è percorso da tre fasce ornamentali dorate, diversamente decorate, che arricchiscono una manica in tessuto rigido: quella centrale ha un motivo a palmette speculari; quelle laterali, un identico fregio vegetale a stampo, di gusto rinascimentale, sovrastato da dentellature. Al polso è attaccata la mano aperta, delimitata in basso da una manica pieghettata; più sotto, sebbene poco visibile, è riproposto lo stesso motivo delle fasce. Quest’oggetto è opera di un qualificato artefice della seconda metà del XV secolo, forse attivo nella fervente Napoli d’età Aragonese.

Sul piano morfologico si possono stabilire utili confronti, ricordando: il Reliquiario a braccio di san Tommaso (1471) della Chiesa di Santa Maria Assunta a Ravello16; i due della Cattedrale di Matera; quello della Parrocchiale di Sant’Erasmo a Santeramo in Colle17.

Per renderne più funzionale la visione e il trasporto nelle processioni rituali nel XVIII secolo il reliquiario pancraziano venne dotato di un possente basamento argenteo caratterizzato da una larga base circolare con motivi a baccelli, alternativamente piatti e bombati, raggruppati nella parte apicale da una corona di foglie volgenti verso il basso; sull’insieme insiste una sfera fasciata, che a sua volta, regge una semicoppa baccellata.

A meno di una mia errata decifrazione, sull’orlo del punzone sono incusse le lettere GMC, corsive e intrecciate tra loro, racchiuse in un ricettacolo vagamente ovale o rettangolare con angoli smussati; è la stessa matrice da me rilevata, a suo tempo, sull’Ostensorio del Museo Diocesano di Manfredonia18.

A un ignoto artefice, forse napoletano, attorno alla seconda metà del XV secolo sarà stato commissionato un pressoché inedito Reliquiario a braccio di San Luca abate (Fig. 4) per l’omonima Chiesa di Armento19, crollata nel gennaio del 1947 per un cedimento della collina su cui sorgeva. Nel verbale della visita pastorale del vescovo Giovanni Battista Santonio, compiuta il 25 novembre 1589, infatti si legge: «Brachium argenteum in quo est ossis brachij sancti Lucae»20.

Negli anni Sessanta-Settanta del Cinquecento al manufatto fu aggiunta una base in rame dorato, la cui elegante decorazione a motivi vegetali palesa una notevole deferenza artistica per le coeve produzioni napoletane. Tra due collarini di questa base è contenuto il nodo ovale, sul quale sono incise sia l’iscrizione in maiuscolo Divi Luce / reliquia, sia l’effige del santo; sul tutto insiste una coppa ovaliforme, atta a sorreggere il braccio, decorata da una incisione a racemi su fondo ruvido e nella parte superiore da una fascia di gigli sagomati, sulla quale è apposto un sigillo cereo, illeggibile perché consunto.

Il basamento in esame, realizzato insieme ad altre opere in metallo, come si dirà, rispecchia la particolare e florida stagione artistica vissuta dalla Chiesa armentese di San Luca Abate nel XVI secolo. Paradigmatici di tale temperie sono il noto Polittico e la tavola di San Leonardo, qui pure allogati21.

Di pregevole esecuzione ed eleganza, poi, è il braccio in argento e argento dorato, dotato di un ricettacolo rettangolare, chiuso da tre quadrilobi traforati sovrapposti e delimitato da una cornicetta incisa con occhielli negli spigoli. In prossimità del polso, la manica dell’abito è pieghettata e impreziosita da una frangia dorata con losanghe foliacee, segnate su fondo ruvido. Una trina di minuti quadrilobi, anch’essi traforati, ha la funzione di raccordo tra il polso e la mano a fusione, resa in atto benedicente.

Nel mignolo della mano benedicente è infilato un interessante Anello (Fig. 5) in oro con rubino, verosimilmente un ex voto. Sui lati superiori della verga s’espandono semplici foglie, alle quali è saldato il castone quadrato, decorato tutt’intorno con due volute divergenti a traforo; in esso è alloggiato un rubino con taglio a gradino. Quest’anello è, forse, opera di un gioielliere-orafo napoletano del XVII secolo.

Nel Reliquiario a braccio di san Vito (Fig. 6), patrono di Albano di Lucania22, sebbene databile al primo Seicento, si colgono stilemi tardomanieristici, quali la forma cilindrica dell’avambraccio, ravvivato da delicati e virtuosistici decori vegetali, incisi su fondo satinato. Il manufatto poggia su una piattaforma circolare in bronzo dorato, sostenuta da tre conchiglie e cinta da un’iscrizione, purtroppo consunta. Nel ricettacolo ovale sono custoditi due frammenti ossei; più in alto compare la sigla compendiaria SIB. SAB. 1623, di difficile interpretazione. Sul polsino dell’abito, abbellito da un pizzo dorato, è innestata la mano benedicente, eseguita a fusione e resa naturalisticamente nei minimi dettagli, essendo ben visibili le pliche cutanee e le vene, nonché, sul dorso, i tendini, le pieghe e, perfino, le nocche. Sul medio della mano è incisa la sigla S.V. che ragionevolmente va sciolta in San Vito.

Per numerosi dettagli questo manufatto della Chiesa di Albano è confrontabile e riferibile allo stesso artefice dell’analogo Reliquiario a braccio di san Vito e san Modesto (1612), già nella Chiesa della Trinità e oggi in quella del Carmine, entrambe a Lagonegro23.

Va precisato che il Reliquiario a braccio di san Gaudenzio nella Chiesa dell’Assunta a Garaguso, convenzionalmente ed erroneamente considerato del Quattrocento24, in realtà è un manufatto napoletano del XVIII secolo, punzonato con il marchio FC di un argentiere mai prima rinvenuto; il basamento, poi, è datato 1923.

Nella circoscrizione ecclesiastica in esame ricorreva, anche la tipologia dei reliquiari a busto, qual era quello del Reliquiario a busto di san Mauro abate (Fig. 7), monaco del VI secolo, discepolo prediletto di San Benedetto25, custodito nella Chiesa di Santa Maria Assunta a San Mauro Forte e rubato nella notte tra il 14 e il 15 marzo 1980.

Di questo reliquiario rimangono effimere testimonianze iconografiche: una cartolina postale del 1965, edita da Vincenzo Simone di Bari26, che propone il santo con una mitria ricamata per rimpiazzare quella originale in metallo, forse perduta, nonché con due croci pettorali ai lati del ricettacolo delle reliquie; tre fotografie, scattate da varie angolazioni nell’aprile del 197527.

Ritengo che questo reliquiario antropomorfo sia stato prodotto a Napoli subito dopo il 1588, poiché di esso non si fa menzione nel verbale della visita pastorale, compiuta il 5 dicembre di quell’anno dal vescovo Giovanni Battista Santonio; va rilevato, infatti, che a quella data la reliquia sancti Mauri abbatis era custodita in un bossolo di legno28.

Il busto perduto potrebbe ben essere accostato a una serie di analoghi esemplari del Cinque-Seicento, diffusi nel Viceregno e nelle aree confinanti: a Montecassino e a Fondi, nel Lazio meridionale29; a Catanzaro, a Cosenza e a Torano Castello in Calabria30; a Napoli, dove ricordo il più tardo San Gennaro (1639) nel Museo Civico di Castel Nuovo31  e il Sant’Eligio, che vidi anni addietro nell’omonima chiesa; nonché alcuni Busti-reliquiario a Montevergine32.

Da fonti orali apprendo che per l’esistente rifacimento del reliquiario la ditta Serpone di Napoli riutilizzò la testa in argento precedentemente fissata su un distrutto busto ligneo del santo abate, pure conservato a San Mauro Forte. Tale testa ricalca perfettamente i lineamenti fisiognomici di quella presente sul trafugato mezzobusto, sicché potrebbe essere stata ottenuta da un modello a stampo per uso processionale.

Altri testimoni mi comunicano che a San Mauro Forte fu ritrovata una Mano benedicente (Fig. 8) in argento fuso, possibile avanzo del citato busto ligneo, tuttavia c’è da chiedersi quale sia stato il destino dell’altra mano, perciò l’oggetto ritrovato potrebbe essere il residuo di un altro reliquiario a braccio, pure commissionato dopo il 1588, in quanto non citato nella visita pastorale di quell’anno. Tutti i particolari anatomici di tale braccio permettono pertinenti confronti stilistici, per esempio, con i reliquiari a braccio conservati nel Museo Diocesano di Bitonto, soprattutto con quello di San Basilio Magno33.

Fra gli oggetti liturgici cinquecenteschi della Diocesi di Tricarico s’impone lo straordinario Ostensorio (Fig. 9) della Chiesa di San Luca Abate ad Armento34, opera di altissimo livello artistico, realizzata in argento fuso e cesellato; è un manufatto assai prezioso, perché pervaso da fitti decori di tradizione classica, resi con grande raffinatezza e con ineccepibile tecnica esecutoria.

La base ovale, gradinata, è costituita da due fasce con ovoli e con fuseruole; la sovrastante superficie è in ogni sua parte decorata da ghirlande penduli, alternate a testine sporgenti di cherubini. Sul bordo perimetrale è incisa l’iscrizione con l’anno di realizzazione e con il nome del committente: Hanc custodiam fieri fecit reverendus donus Lucas Ferrus archi(b)respiter Terre Armenti ad honorem et gloria Santissimi Sacramenti iunii 1599. L’opera, sicuramente giunta ad Armento per la festa del Corpus Domini del 1599, risponde ai dettami canonici postconciliari. Sul collo del piede è uno stemma ‘parlante’, mai prima d’ora evidenziato, raffigurante un leone rampante che spezza con le zampe anteriori un’asta in ferro, probabile riferimento al cognome dell’arciprete committente.

L’elaborato fusto è costituito da un nodo a cipolla, anch’esso finemente decorato, dal quale si dipartono due volute vegetali; su queste poggiano altrettanti angeli panneggiati, a figura intera e di grande effetto plastico, in atto d’adorare l’ostia consacrata. Nel mezzo, sovrapposto a un nodo a balaustro e in posizione più elevata rispetto ai due precedenti, insiste un terzo angelo di maggiore dimensione, che con le braccia divaricate sorregge la sfarzosa raggiera. Questa racchiude la teca circolare, circondata dall’iterazione di cinque raggi lanceolati e di uno fiammeggiante, frapposto ai primi; la parte superiore è completata dalla figura del Cristo risorto, oggi privo della mano destra e del vessillo crocesignato.

Quanto evidenziato e la polita armonia stilistica di quest’ostensorio permette d’assegnarlo a un argentiere napoletano d’alto profilo, capace di proporre un modello colto assai gradito ai committenti. Ai confronti proposti da Rita Mavelli, vanno, ora, aggiunti quelli più calzanti con gli ostensori di Acquaviva delle Fonti e di Ruvo di Puglia35. Allo stesso àmbito culturale vanno, inoltre, ricordati: il coevo Ostensorio della Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Pescina in provincia de L’Aquila36; quello della Chiesa di Santa Maria Assunta a Ruvo del Monte (Fig. 10) nella Diocesi di Melfi, addirittura ritenuto un’opera del XIX secolo37, che mi riprometto di approfondire in un prossimo studio.

La presenza ad Armento di un reperto così raffinato testimonia, più di tanti altri esempi, la fitta rete di contatti istituiti tra la committenza locale e la capitale del Viceregno.

Un esemplare simile è quello inventariato nella Chiesa di Santa Maria dell’Episcopio a Montalbano Jonico, oggi nella Diocesi di Matera, come detto. Il 14 gennaio 1589 esso è così descritto: «Tabernaculum eneum deauratum cun cuppa argentea deaurata, ac cristallo ornatum pro deferendo Sanctissimo Sacramento Eucaristiae processionaliter et est altitudinis palmorum duorum vel circiter, habetque in illius pede duo cornucopia ramum facienta in quorum capite extant due imagines angelorum ex opere elevato orantes sanctissimum Sacramentum, et sunt de consimili, et tabernaculum ipsum est decentis operis»38.

Nei canoni liturgici di qualsiasi rito, fra gli arredi preziosi non manca il vaso sacro per eccellenza, vale a dire il calice per la consacrazione eucaristica del vino. Tra i reperti rilevati nella circoscrizione in esame, quelli prodotti a partire dalla seconda metà del Cinquecento costituiscono la maggioranza. Si connotano, particolarmente, per la base e per il fusto a fusione in rame o in bronzo dorato, decorati con elementi vegetali, nonché per ricorrenti elementi distintivi: il nodo a oliva o ovaliforme; il sottocoppa con motivi a baccelli o arabescati, sovrastato da un cordolo con trina traforata.

Nell’intento di un deciso rinnovamento delle suppellettili sacre e sulla scia delle direttive canoniche tridentine, pervenne alla Chiesa di San Luca Abate di Armento un elegante Calice (Fig. 11), il cui modello è comune ad altri, frequentemente rinvenuti nelle regioni del Mezzogiorno d’Italia. Il punzone impresso (G·P/P), è quello di Gian Pietro Parascandolo, argentiere autorevole nel panorama artistico napoletano, vissuto a cavaliere tra XVI e XVII secolo, e del quale in Basilicata si conservano diverse opere39.

Sia pure con qualche variante, le soluzioni descritte si riscontrano, anche, in altri calici rilevati in diversi luoghi di culto lucani: nella Chiesa di San Nicola di Bari ad Accettura40 (Fig. 12); nella Chiesa di San Luca Abate, pure ad Armento41 (Fig. 13); nella Chiesa di Santa Maria Assunta a Corleto Perticara42 (Fig. 14), ma di questo manufatto il perduto sottocoppa originale è stato sostituito da uno molto semplice; nella Chiesa dell’Assunta ad Albano di Lucania (Figg. 1516), nella quale sono conservati due esemplari, di cui uno in rame.

La famiglia Campolongo, una delle più influenti a Tricarico e a Campomaggiore, contribuì alla realizzazione di un inedito e interessante Calice (Fig. 17), originariamente destinato al Convento di Sant’Antonio da Padova dei Minori Osservanti di Corleto Perticara43, distrutto per effetto di un bombardamento aereo nel 1943 e, perciò, portato nella Chiesa di Santa Maria Assunta della stessa città.

L’insegna araldica della famiglia, forse partita con quella dei Cardona, è cesellata sulla base fra le figure a mezzo busto del Sant’Antonio da Padova e di San Rocco, entrambe rese con dovizia di particolari e alternate da eleganti decori vegetali. Sotto il piede, a ribadire l’originaria destinazione del manufatto in un convento francescano, è presente una placchetta dorata, su cui è incisa l’insegna berardiniana IHS; il sottocoppa argenteo è, invece, un evidente elemento sostitutivo di quello autentico. Questo calice andrebbe assegnato a un argentiere napoletano dei primi anni del Seicento, che rivela stilemi tardocinquecenteschi.

La generosità dimostrata da Campolongo all’Ordine Francescano è attestata, anche, dalla preziosa e coeva dalmatica sulla quale campeggia il loro stemma di famiglia, donata al Monastero di Santa Chiara di Tricarico e oggi conservata nel locale Museo Diocesano44.

Altro sacro vaso indispensabile nelle celebrazioni liturgiche è la pisside. Specifico connotato degli esemplari prodotti tra gli ultimi due decenni del Cinquecento e i primissimi anni del Seicento è la quadripartizione della coppa, mediante campi triangolari lisci, alternati ad altri con minuta ornamentazione vegetale (steli foliacei o girali oblunghi); tale decorazione investe, anche, il coperchio, spesso sormontato da crocetta. Questo modello è da annoverare tra le più alte prove messe in campo dalla produzione argentaria napoletana, capace di raggiungere ogni ‘periferia’ del Viceregno, Lucania compresa45.

Quanto detto emerge con tutta evidenza nella Pisside (Fig. 18) di Corleto Perticara46, sulla cui coppa, oltre ai citati elementi naturalistici, è presente lo stemma dell’Ordine Francescano, sovrastato dall’acronimo S.F. di San Francesco. Presumo, pertanto, che essa fosse nelle dotazioni del Convento di Sant’Antonio da Padova, abitato dagli Osservanti dal 1596 e distrutto, come s’è detto, nel 194347.

A fianco del cinquecentesco punzone della Corporazione dell’Arte orafa napoletana (NAPL coronato) è impresso quello, attestato per la prima volta, con le lettere ISB intrecciate (Fig. 19) di un argentiere, del quale non si conosce alcun altro prodotto e ciò costituisce un’autentica rarità documentaria della pisside in esame. Qui pure la sigla bSC, marchio di un ignoto console dell’Arte, è stato, finora, individuato su sparuti manufatti: una Croce in collezione privata di Perugia48; un Calice della Basilica di San Nicola di Bari49; una perduta Croce di Peschio, Frazione di Alvito in provincia di Frosinone50.

Il peculiare ornato del manufatto corletano si riscontra, anche, nella Pisside (Fig. 20), dissimile da questo solo per la struttura del nodo, conservata nella Chiesa di San Nicola Magno a Missanello51.

Agli stessi ateliers partenopei potrebbe essere attribuita la Pisside (Fig. 21) della Chiesa di San Luca Abate ad Armento52, forse la stessa descritta nel verbale del 23 novembre 1589 della citata visita pastorale di Giovanni Battista Santonio: «[…] pixidem argenteam cum coopertorio simili»53.

È gemella, peraltro, di un’altra Pisside (Fig. 22) conservata nella Chiesa di Santa Maria Assunta a Stigliano ma priva di crocetta apicale, forse da identificare in una delle due rilevate nel corso della visita pastorale del 23 dicembre 1588: «[…] duobus pissidibus argenteis in forma rotunda cum pede aeneo, altitidinis pro mediatate unius palmi et cum tegumento similiter argenteo»54. La doppia fascia di girali a sviluppo orizzontale, presente in questi ultimi esemplari, è simile a quelle riscontrate su altre due pissidi conservate a Latronico e a Francavilla sul Sinni55.

Uguale impianto si riscontra in un’altra Pisside (Fig. 23) della Chiesa dell’Assunta ad Albano di Lucania, sebbene priva della crocetta sommitale e, soprattutto, della base originale, sostituita con una di scarso valore. Venne schedata erroneamente nel 1976 come opera dell’Italia meridionale e datata tra il 1890 e il 191056 mentre si tratta di un manufatto dell’ultimo quarto del XVI secolo, forse da riconoscere in una delle opere elencate nel verbale del 31 ottobre 1588 della detta Santa Visita di Giovanni Battista Santonio: «[…] pissidi argentea rotunda condecenti»57.

Allo stesso orizzonte culturale va riferita un’altra Pisside (Fig. 24), forse inclusa nell’originaria dotazione della Chiesa di Santa Maria Assunta a Stigliano; oggi risulta irreperibile; venne censita nel 1996 nella Chiesa di San Giacomo a Stigliano e datata al XVIII secolo58.

A questo stesso milieu va ricondotta la Pisside (Fig. 25) della Chiesa di San Giovanni Battista e San Marco a Grassano, che va, agevolmente, datata entro il 1589 o poco oltre, poiché nel verbale del 20 novembre 1588 della citata visita pastorale il vescovo Giovanni Battista Santonio lamentò l’assenza di quest’oggetto liturgico e ne impose l’acquisto entro sei mesi: «[…] et qui non extat pixis et assertum existit, propterea fuit iniuctum ut intra sex menses proximos conficiatur pixis decens saltim ex argento deaurato»59.

La base e il nodo a oliva in rame fuso, di questa pisside, chiaramente pezzi riutilizzati, sono quelli tipici del tardo Cinquecento, simili ai vasi eucaristici riscontrati nella diocesi di Tricarico. La coppa (forse degli inizi del XVII secolo), invece, è più slanciata e connotata da un elegante decoro vegetale, frammisto a testine di cherubini e a medaglioni raffiguranti ascia, chiodi, spugna, lancia, flagelli, corda, corona di spine, croce, lanterna, scala, dadi, caraffa e bacile, simboli tradizionali della Passione di Cristo, pure proposti sul coperchio.

Avanzi di una pisside o di un calice di fine Cinquecento vanno considerati la base e il fusto in rame dorato di due Vasi per olii sacri (Figg. 2627) della Chiesa di Santa Maria Assunta di Stigliano. I contenitori argentei sono, invece, del XVIII secolo come rivela l’iscrizione incisa: Arch(ipresbiter) Porcellini f(ieri) f(ecit) 173160. Hanno forma ovale e un coperchio sormontato da crocetta, che in uno dei due esemplari è andata perduta; l’iscrizione compendiaria indica che contenevano, distintamente, gli olii del crisma e dei catecumeni, il primo; degli infermi, il secondo.

Al Rinascimento maturo va riferita la bella Corona da statua (Fig. 28) della Parrocchiale di Santa Maria Assunta a Gorgoglione, cromaticamente diversa da quella proposta nell’immagine in quanto, purtroppo, è stata di recente sottoposta a doratura. Nonostante le modifiche e la perdita di alcuni trifogli sommitali, reintegrati con mediocri imitazioni, l’opera rivela una discreta qualità formale, evidenziata dalla virtuosistica esecuzione degli ornati vegetali, presenti in ogni sua parte; la fascia inferiore è punteggiata da finti castoni con false gemme.

Questa corona, inventariata come opera di manifattura angioina della seconda metà del XV secolo61, a mio parere va attribuita a un argentiere napoletano, attivo nei primi anni del Seicento; a questo proposito è utile rilevare che il luogo di culto in cui il manufatto è custodito venne eretto nel 1615. Sul piano stilistico un confronto stringente rimanda alla Coppia di corone (1614) del Santuario di San Leo a Bova (Reggio Calabria), assegnata a un argentiere messinese62.

Nel Santuario di Santa Maria dell’Olivo a Tricarico, accorsato luogo di pellegrinaggio e di preghiera, anticamente erano stivati preziosi ex voto, come s’evince dal verbale del 28 marzo 1588 della citata visita pastorale del vescovo Giovanni Battista Santonio: «[…] diversa vota argentea ligata in tobalea linea cum anulis argenteis et aureis diversis, fractis, cum corona magna et alijs diversis pro votis datis et presertim catenis exaureo et argento fractis»63.

Esemplari, poi, sono gli ex voto rilevati in due luoghi cari alla devozione popolare: la Chiesa di Santa Maria del Monte a Salandra e la Cappella della Natività di Maria Vergine, all’interno della Matrice di Stigliano64.

Della particolare tipologia di croce ad albero, prodotta a Napoli tra l’ultimo quarto del Cinquecento e il primo Seicento, è la bella e purtroppo malandata Croce astile della Chiesa di Santa Maria Assunta a Cirigliano (Fig. 29). È un genere che dovette avere un eccezionale gradimento, a giudicare dal gran numero di esemplari che se ne conoscono in Basilicata e nell’Italia centro-meridionale65. Già datata al 1605 e, poi, al 1609, in realtà è, a mio parere, un’opera da circoscrivere a qualche anno prima di quest’ultima data, poiché l’iscrizione incisa sulla parte inferiore del montante fa riferimento a un intervento di riparazione occorso, forse, dopo una rovinosa caduta: SVP(R)A / IONCATA / 160966. La croce in esame, infatti, mostra l’aggiunta di un cilindrico liscio, dunque non in linea con le raffinate decorazioni che connotano i due bracci a torciglione: tralci di vite ritorti con cimatura di rametti appena potati e qualche uccello beccheggiante. Sul recto è inchiodato il Crocifisso, in asse con il teschio di Adamo mentre in alto svetta il simbolo cristologico del Pellicano, oggi privo del nido. La macolla, inoltre, è ridipinta – si intravedono parti originali in rame dorato – e impreziosita da castoni con false gemme. Il cartiglio INRI, lacunoso, non è quello originale.

Per ultimo, ma non in ordine d’importanza, considero un malandato Vaso per gli olii sacri (Fig. 30) della Chiesa di San Giovanni Battista e San Marco a Grassano. Privo di qualsiasi elemento ornamentale, ha forma rettangolare e poggia su quattro piccoli e semplici supporti, uno dei quali è perduto. Sulla faccia principale sono incise le lettere ·O·S· e ·O·C·, quest’ultima malamente integrata, più tardi, dalla lettera R per meglio indicare il contenitore dell’olio del crisma. Il coperchio piramidale, che insiste su una piattaforma gradinata, è sormontato da una crocetta traforata, trilobata nelle terminazioni. All’interno, in due scomparti cilindrici andavano riposti i contenitori, in origine di vetro, degli olii sacri.

Questo vaso, da assegnare a un artefice napoletano o lucano, sostituì quello ricordato il 20 novembre 1588 nel citato verbale della santa visita del vescovo Giovanni Battista Santonio: «In eadem custodia reperta sunt tria vasa stannea bene cooperta et decentia pro sacris liquoribus cum literis indicantibus olea sancta in ejsdem existentia»67.

Quando il mio saggio era ormai concluso, nella chiesa di Santa Maria Assunta ad Albano di Lucania si è rinvenuta una Pace in bronzo dorato con la raffigurazione della Crocifissione (Fig. 31); tale esemplare, da assegnare a Galeazzo Mondella detto il Moderno (Verona? 1467-1528), è simile a molti altri rinvenuti un po’ ovunque: si veda, per esempio, quello di San Marco la Catola68.

  1. G. Boraccesi, Croci astili del Quattro e Cinquecento nella Diocesi di Tricarico, in “Bollettino d’Arte”, in cds. []
  2. A. Grelle Iusco, Arte in Basilicata, Roma 1981, pp. 34-36; misurano rispettivamente, il primo cm 32x19x18,5; il secondo, cm 5xØ5. Si veda, inoltre, M. Falla Castelfranchi, Arti figurative: secoli XI-XIII), in Storia della Basilicata. 2. Il Medioevo, a cura di C. D. Fonseca, Bari 2006, pp. 789-790. []
  3. Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, a cura di L. Bubbico – F. Caputo – A. Maurano, Montescaglioso 1996, pp. 11 e 14. []
  4. G. Filardi, Visitatio illustrissimi, et reverendissimi domini Joannis Baptistae Santonio episcopi tricaricensis. Anno 1588-89, Galatina 2018, p. 439. []
  5. G. Filardi, Visitatio…, 2018, p. 118. []
  6. E. e C. Catello, L’oreficeria a Napoli nel XV secolo, Napoli 1975, p. 65; A. Grelle Iusco, Arte…, 1981, pp. 137-138, 324; S. Di Sciascio, Riccio di pastorale, in Argenti in Basilicata, catalogo della mostra (Matera, luglio-settembre 1994) a cura di S. Abita, Salerno 1994, pp. 144-145; E. Catello, Un grande patrimonio di argenti antichi, in Argenti in Basilicata, p.21; A. Cucciniello, Per un esame compilativo dell’argenteria di epoca rinascimentale ­– Note documentarie, in Tardogotico e Rinascimento in Basilicata, a cura di F. Abbate, Matera 2002,, p. 399; C. Gelao, Arti figurative: il Quattrocento, in Storia della Basilicata…, 2006, pp. 870-871; Museo Diocesano di Tricarico. Storia arte e culture dalle origini a oggi. Guida a percorso espositivo, Foggia 2016, pp. 24, 27, 62. []
  7. G. Filardi, Visitatio…, 2018, pp. 154-155. Questo passo del verbale veniva già riportato dalla Di Sciascio. []
  8. I. e S. Consigli, Cattedrale dei Santi Florido e Amanzio. Museo Diocesano, Città di Castello 2015, pp. 85-87. []
  9. A. Grelle Iusco, Arte…, 1981, p. 137. []
  10. E. Catello, Un grande patrimonio…, 1994, p. 21. []
  11. G. Boraccesi, Capolavori di oreficeria nella Cattedrale di Nardò, Galatina 2013a, p. 13. []
  12. G. Filardi, Visitatio…, 2018, pp. 154-157, 165, 593. La croce di Tricarico è così descritta: «ad formam truncorum altitudinis palmorum duorum, in capite extat pellicanus argenteus habet imaginem domini nostri Jesu Christi crucifixi et in pede habet pilam eneam deauratam cum insignis reverendissimi domini Antonij Capreoli dum vixit episcopi tricaricensis et tota confecta est maxismo artificio et de recens». []
  13. F. Arduino, San Pancrazio martire, in www.santiebeati.it. []
  14. D. Miceli, 1974, scheda OA n. 1700123837; R. Ruotolo, 2005; Museo Diocesano di Tricarico, p.24. []
  15. G. Filardi, Visitatio…, 2018, pp.151-152. []
  16. A. e L. Lipinsky, Il tesoro sacro della costiera amalfitana, Amalfi 1989, p.153; il reliquiario è qui datato alla seconda metà del XIV mentre la didascalia del museo indica il 1471. []
  17. S. Di Sciascio, in Argenti in Basilicata, 1994, pp. 44-47, 49. []
  18. G. Boraccesi, Gli argenti del Museo Diocesano di Manfredonia, in Museo Diocesano di Manfredonia. Guida al percorso espositivo, a cura di N. Tomaiuoli-A. D’Ardes, Foggia 2016, pp. 57-58; erroneamente qui indicavo le lettere CM. []
  19. F. L. Bibbo 1983, scheda OA n. 1700126118; qui il reliquiario è datato tra il 1590 e il 1610. []
  20. G. Filardi, Visitatio…, 2018, p.58. []
  21. A. Grelle Iusco, Arte…, 1981, pp. 73-74, 262-263; D. Artusi, Il Polittico di Armento e la tradizione dello stile umbro in Basilicata, in Nicola Villone, Armento: origine, etimologia, istoria, archeologia, numismatica, costituzione topografica e corografica: manoscritto inedito della seconda metà del 19, secolo per una ricerca su Armento, antica città basiliana, a cura di S. Del Lungo-M. Lazzari-C. A. Sabia, Villa d’Agri 2014, pp. 353-368. []
  22. D. Miceli, 1976, scheda OA n. 1700122244. []
  23. G. Boraccesi, Argenteria in Basilicata. Il Tardogotico e il Rinascimento nella Diocesi di Lagonegro-Tursi, Foggia 2017, pp. 41, 45-47. []
  24. Touring Club Italiano, Basilicata e Calabria, Milano 2005, p. 202. []
  25. D. Agasso, San Mauro monaco, in www.santiebeati.it. Per l’arco cronologico qui considerato, in Lucania mi è noto solo quello di San Giovanni Elemosinario a Carbone cfr. G. Boraccesi, Argenteria in Basilicata…, 2017, pp. 38, 41. []
  26. La cartolina mi è stata fornita da Antonio Calbi che ringrazio. []
  27. Archivio Fotografico della Soprintendenza di Basilicata, Matera, n. 18191E. []
  28. G. Filardi, Visitatio…, 2018, p. 439. []
  29. D. Catalano, Argenti sacri da Napoli e dal meridione: presenze nel Lazio tra XVI e XVIII secolo, in Sculture preziose. Oreficeria sacra nel Lazio dal XIII al XVIII secolo, catalogo della mostra (Città del Vaticano, 30 marzo-30 giugno 2015) a cura B. Montevecchi, Roma 2015, pp. 60-61, 215. []
  30. G. Leone e R. Caputo, in Argenti di Calabria testimonianze meridionali dal XV al XIX secolo, catalogo della mostra (Cosenza, 1 dicembre 2006-30 aprile 2007) a cura di S. Abita, Pozzuoli 2006, pp. 52-57, 60-61. []
  31. R. Middone, scheda 4.2, in Ritorno al barocco da Caravaggio a Vanvitelli, catalogo della mostra (Napoli, 12 dicembre 2009 – 11 aprile 2010) a cura di N. Spinosa, Napoli 2009, pp. 119-120. []
  32. L. Coiro, Busti-reliquiario, in Il Museo Abbaziale di Montevergine. Catalogo delle opere, a cura di P. Leone de Castris, Napoli 2016, pp. 138-141. []
  33. G. Boraccesi, Il Cinquecento, ovvero il secolo d’oro di Bitonto attraverso l’analisi delle oreficerie, in Cultura e società a Bitonto e in Puglia nell’età del Rinascimento, a cura di S. Milillo, Galatina 2009, II, pp. 527-532. []
  34. F. L. Bibbo, 1983, scheda OA n. 1700126180; R. Mavelli, Oreficeria e argenteria nel Cinquecento, in Storia della Basilicata…, 2006, pp. 913-914. []
  35. G. Boraccesi, La Puglia il manierismo e la controriforma, catalogo della mostra (Bitonto-Lecce, 15 dicembre 2012-8 aprile 2013) a cura di A. Cassiano-F. Vona, Galatina 2013b, pp. 197-198 (con bibliografia precedente). []
  36. E. Mattiocco, Oreficeria sacra nella Marsica, in Architettura e arte nella Marsica: 1984-1987, L’Aquila-Roma 1998, pp. 96-97. []
  37. S. Mola 1992, scheda OA n. 1700128521. []
  38. G. Filardi, Visitatio…, 2018, p. 593. []
  39. G. Boraccesi, Argenteria in Basilicata…, 2017, pp. 37-38 (con bibliografia precedente). []
  40. R. D. Bianco 1997, scheda OA n. 1700135144; il calice è assegnato a una bottega meridionale del XIX secolo. []
  41. F. L. Bibbo, 1983, scheda OA n. 1700126123; datato tra il 1590 e il 1599, il punzone GPP non veniva identificato. []
  42. F. L. Bibbo 1990, scheda OA n. 1700126925 []
  43. G. Ciotta, scheda n. 22, in Insediamenti francescani in Basilicata. Un repertorio per la conoscenza, tutela e conservazione, Matera 1988, II, pp. 60-61. []
  44. M. P. Pettinau Vescina, Preziosi doni di vescovi, badesse, suore e devoti. Paramenti sacri al museo diocesano di Tricarico, in Segni di luce a trame d’oro. I paramenti liturgici della diocesi di Tricarico, catalogo della mostra (Tricarico, 6 aprile-1 settembre 2019) a cura di C. Biscaglia-M. P. Pettinau Vescina – R. Ruotolo, Foggia 2019, pp. 18, 32-33. []
  45. G. Boraccesi, Argenteria in Basilicata…, 2017, pp. 29-35. In questa tipologia rientra anche la Pisside della chiesa dei Santi Quirico e Giulitta a Cargeghe (Sassari), dubitativamente assegnata a un argentiere napoletano cfr. M. Porcu Gaias-A. Pasolini, Argenti di Sardegna. La produzione degli argenti lavorati in Sardegna dal Medioevo al primo Ottocento, Perugia 2016, p. 95. []
  46. F. L. Bibbo, 1990, scheda OA n. 1700126947; qui si rilevava il punzone di Napoli e quello errato dell’argentiere con “SI sovrapposti”; R. Mavelli, Oreficeria e argenteria…, 2006, p. 912. []
  47. G. Ciotta, scheda n. 22, in Insediamenti…, 1988, pp. 60-61. []
  48. E. e C. Catello, I marchi dell’argenteria napoletana dal XV al XIX secolo, Sorrento-Napoli 1996, p. 27. []
  49. G. Boraccesi, La Puglia il manierismo.., 2013b, pp. 198, 212 nota 17. []
  50. D. Catalano, Argenti sacri…, 2015, p. 60 nota 25. []
  51. F. L. Bibbo, 1983, scheda OA n. 1700127509; qui la pisside è datata tra il 1740 e il 1760. []
  52. F. L. Bibbo, 1983, scheda OA n. 1700126179. []
  53. G. Filardi, Visitatio…, 2018, p. 54. []
  54. G. Filardi, Visitatio…, 2018, pp. 507-508. []
  55. G. Boraccesi, Argenteria in Basilicata…, 2017, pp. 33-34. []
  56. D. Miceli 1976, scheda OA n. 1700122249. []
  57. G. Filardi, Visitatio…, 2018, p. 325. []
  58. R. Mercante 1996, scheda OA n. 1700131291. []
  59. G. Filardi, Visitatio…, 2018, p. 375. []
  60. R. Mercante, 1996, scheda OA n. 1700000301. []
  61. R. Mercante, 1995, scheda OA n. 1700132754. []
  62. R. A. Filice, Coppia di corone, in Argenti di Calabria, pp. 104-105. []
  63. G. Filardi, Visitatio…, 2018, p. 211. []
  64. G. Filardi, Visitatio…, 2018, pp. 495, 522. []
  65. A. Grelle Iusco, Arte…, 1981, p. 148; R. Mavelli, Oreficeria e argenteria…, 2006, p. 918; G. Boraccesi, Argenteria in Basilicata…, 2017, pp. 18-25. Su questa tipologia di croce, inoltre, si veda A. Ricco, Manufatti in argento tra ‘500 e ‘600 nel basso Salernitano tra modelli toscani e botteghe napoletane: le croci astili dalla simbologia Arbor vitae, in Ritorno al Cilento. Saggi di storia dell’arte, a cura di A. Ricco-F. Abbate, Foggia 2017, pp. 67-74. L’elenco di questa particolare croce astile si arricchisce di un ulteriore esemplare, pressoché inedito, conservato nella Chiesa di San Nicola di Bari a Lettopalena (Chieti), credo la prima ad Arbor Vitae rinvenuta in Abruzzo; ringrazio l’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Chieti-Vasto. La particolare morfologia e i decori che connotano la tardo cinquecentesca macolla della più moderna Croce astile del Museo Parrocchiale di Pescopagano rientra, a mio parere, nel gruppo delle croci ad albero; ragion per cui qui se ne conservava un altro esemplare, poi disperso cfr. C. Guerra, Arte e Culto a Pescopagano tra XVI e XIX secolo, Potenza 2003, pp. 56-57. []
  66. Una scheda inventariale riporta invece la scritta SVRA IONCA(T)A/1609 cfr. G. C. Madio, 2007, scheda OA-I n. 1700167857. []
  67. G. Filardi, Visitatio…, 2018, p. 375. []
  68. G. Boraccesi, Oreficeria sacra in Puglia tra Medioevo e Rinascimento, Foggia 2005, p. 78. []